In uno dei discorsi tenuti nei primi anni Sessanta per la Pacifica Radio di Berkeley, Alan Watts ripensa criticamente a un saggio di Carl Jung, che Alan aveva conosciuto durante il suo viaggio europeo del 1958. 

Il saggio al quale Watts si riferisce è un commentario di Jung alla traduzione di un classico cinese, The Secret of the Golden Flower, da parte di un altro amico di Jung, Richard Wilhelm. In questo commentario, Jung affronta il problema dei pericoli impliciti nell’adozione di modi di vita orientali da parte degli occidentali, in particolare l’adozione di antiche pratiche spirituali come lo yoga. E la ragione per cui sconsiglia l’adozione delle pratiche yoga da parte degli occidentali è che, sostiene, questa è una disciplina per una cultura molto più antica della nostra, che su certi percorsi è andata molto più avanti e ha acquisito conoscenze che noi non abbiamo ancora. Per un occidentale, sostiene ancora Jung, cercare di padroneggiare pratiche di meditazione nelle quali si deve escludere dalla coscienza tutti i pensieri vaganti, può essere molto pericoloso. Quello che un occidentale avrebbe invece bisogno di fare è proprio permettere a tutti i pensieri di venire liberamente, e così anche all’immaginazione e alla fantasia, perché questo è il solo modo di entrare in contatto col proprio inconscio.  Jung presume che gli appartenenti alle culture orientali abbiano raggiunto questo stadio molto prima di intraprendere le pratiche yoga.

Alan, che di Jung era amico e ammiratore, non pensa invece che siano questi i pericoli che corre un occidentale nell’avvicinarsi alle discipline orientali. Il pericolo è, piuttosto, nell’adottare, insieme a quelle che sono vie di liberazione, le stesse strutture costrittive dalle quali queste discipline dovrebbero liberare. Ovvero le relative convenzioni sociali, che assomigliano alle regole di un gioco: funzionano se accettate da tutti allo stesso modo ma non corrispondono all’effettiva struttura della natura umana. Da questo punto di vista, sono fittizie, strumentali.

Watts è convinto che la funzione di queste vie di liberazione è rendere possibile, per chi è determinato, liberarsi dall’ipnosi sociale che deriva dal credere che quelle regole siano assolute e non semplicemente funzionali al gioco. All’interno delle culture orientali che hanno generato le vie di liberazione, per esempio, è stato sempre perfettamente naturale credere di essere sotto il controllo di un processo karmatico inteso come giustizia cosmica, con reincarnazioni conseguenti ai propri comportamenti: stati divini, stati infernali. A noi, dall’esterno, può apparire un sistema ingegnoso per incoraggiare una condotta etica, ma dall’interno questa prospettiva è quasi impossibile. E’ per questo che discipline come il Vedanta e il Buddhismo sostengono che lo scopo finale è la liberazione dal ciclo delle rinascite e  dall’illusione di essere un individuo separato confinato in questo corpo. E dicono che colui che si libera da questo ciclo e dall’illusione della separatezza, nel momento in cui si libera, vede che il processo della reincarnazione, come l’intera cosmologia della reincarnazione e del karma, così come l’ego individuale, sono, in un certo senso, illusioni. Cioè sono Maya: una struttura giocosa nel senso di regole che permettono il gioco.

A Alan sembra contraddittorio e curioso quando gli occidentali che si avvicinano al Vedanta o al Buddhismo, cioè a forme di disciplina concepite per liberare gli hindu e i cinesi da certe istituzioni sociali, adottano le stesse istituzioni sociali, ovvero  le stesse idee di reincarnazione e karma da cui queste discipline intendono liberare. Naturalmente le adottano, nota Watts, perché pensano che sia necessario, o perché spiegano qualcosa, per esempio che il dolore non è dovuto a una presunta ingiustizia cosmica ma a qualche azione compiuta nel passato. Ma così gli occidentali che fanno proprie le dottrine orientali con questo spirito, purtroppo, adottano proprio le illusioni per la liberazione dalle quali queste discipline erano state concepite.

Ma se il buddhismo e il Vedanta erano davvero delle vie di liberazione, come potevano essere tollerate dalle società asiatiche? La risposta, per Alan, sta semplicemente nell’esoterismo di queste discipline, spesso non compreso: i maestri di queste discipline rendevano incredibilmente difficile, per chi non fosse iniziato, entrare. E il loro metodo di iniziazione, in un senso, era  costruire trappole dopo trappole per vedere se l’iniziato avrebbe trovato la strada. Il maestro non si sarebbe sognato di cominciare sconvolgendo l’equilibrio del discepolo dicendogli che tutto quello che gli avevano insegnato i genitori erano frottole. Il maestro avrebbe esercitato, per usare un termine buddhista, upaya, termine sanscrito che significa mezzi abili o mezzi esperti. Qualche volta descritti come dare a un bambino una foglia gialla per farlo smettere di piangere perché vuole l’oro.

Il maestro sa che il problema fondamentale, per il discepolo, è liberarsi dall’idea di essere un sé separato, e che non c’è niente in cui sperare di essere reincarnati. Quindi lo porta alla meditazione, a provare attraverso l’ego a liberarsi dall’ego:  una bella trappola che può durare per sempre, fino a quando uno ci vede attraverso. E’ un po’ come suonare un tamburo mentre si insegue un fuggitivo. Fino a che, proprio all’ultimo momento, lo studente scopre la falsità, o la natura fantastica, o di gioco, del sistema di convenzioni che è esistito alla base della sua particolare cultura.

Ciò che sta oltre le convenzioni, per Alan, è l’amicizia fondamentale tra il sì e il no. In Cina, rappresentata dal simbolo dello yin e dello yan. Il grande gioco che sta alla base di tutte le convenzioni sociali è che questi due pesci sono in guerra tra di loro: prima o poi il pesce buono vincerà quello cattivo, eccetera. E invece sono la stessa cosa: non stanno combattendo, stanno danzando. La paura è che se la gente lo scopre non starà più al gioco.

Quello che il Buddha o il bodhisattva fa è vedere attraverso questo: non ha bisogno di essere nutrito da odio, da competizione o da paura per proseguire col gioco della vita.

Questa particolare concezione di Alan Watts del rapporto tra convenzionale e il non convenzionale è forse  legata al clima di nascente controcultura nel quale egli stesso si esprimeva, all’inizio degli Sessanta a Berkeley. Ma anche sostanzialmente vicina alla visione della Via di Mezzo, che considera legame causale, legame karmico e gli stessi agenti di questi legami tutti interni al mondo convenzionale (e quindi samsara). Importante è dare valore a questo gioco nella misura in cui si riconosce come tale.

Qui la trascrizione completa del discorso.

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