Uno dei fronti di avvicinamento dell’Occidente all’Oriente è stato, nel Novecento, quello della musica e del suono. Un processo lungo e affascinante che passa da Messiaen a Debussy a Britten finché, agli inizi della seconda metà del secolo, sembra prendere la strada dei mantra, con i tape loops di Terry Riley e la percussività di Steve Reich, e quella dell’attenzione al caos del suono con Stockhausen e la grande Revolution 9 dei Beatles.
I Beatles conoscevano bene sia Terry Riley, della cui storica In C si sente l’eco nell’altrettanto storica A Day In The Life, sia le sperimentazioni sonore di Stockhausen. Revolution 9, composta da John Lennon con 20 registratori e molta manualità, è costituita dall’interazione casuale di centinaia di frammenti sonori, un’immersione in un oceano sonoro, la rappresentazione di uno stato di ascolto di quello che arriva. La ripetizione delle parole “Number 9” ricorda quella di un mantra a volte sovrastato da contenuti sonori che entrano e escono.
Indipendentemente dalla riuscita di quel difficile e discusso esperimento, noi ora, a distanza di quasi cinquant’anni, ce ne ricordiamo quando meditiamo con i suoni.
L’ascolto meditativo dei suoni è della stessa natura di quello dei pensieri perché i suoni sono altrettanto immateriali e aperti all’interpretazione quanto lo sono i pensieri. Sul sorgere di entrambi, suoni e pensieri, non abbiamo controllo: sembrano apparire dal nulla. Eppure hanno il potere di accendere emozioni potenti e di portarci via con loro.
Una meditazione con i suoni
Una meditazione con i suoni si può praticare semplicemente camminando per le strade di una città indaffarata. Ci sincronizziamo con i passi e col respiro, stabiliamo un ritmo e il passo che vogliamo, anche spedito. Portiamo lo sguardo qualche metro davanti a noi sul marciapiede o sul sentiero, immaginiamo lì una piccola luce, come quella di un faretto, che si sposta e si ferma con noi. Tutto il resto del campo visivo è presente ma periferico, camminiamo e ci lasciamo ascoltare.
Immaginiamo il nostro corpo come fosse un microfono che riceve suoni e vibrazioni indiscriminatamente. All’inizio forse percepiamo un rumore diffuso, indistinto, ma poi i singoli suoni cominciano a presentarsi all’attenzione: vicini, lontani, da dietro, da davanti, da destra, da sinistra, da sopra, da sotto. Le voci di qualcuno che incrociamo, un clackson, lo strusciare di un motore, una radio accesa, lo squillare di un telefono, una musica lontana, una voce che chiama, il fruscio dei motori delle macchine, lavori stradali. Se osserviamo bene, si presentano alla nostra attenzione uno alla volta, lasciando gli altri sullo sfondo, proprio come i pensieri: arrivano e se ne vanno lasciando il posto a un altro.
Osserviamo come ogni suono abbia un timbro, un volume che può crescere e diminuire, una durata, una direzione che cambia. Ci accorgiamo come sia difficile per noi ascoltare i suoni nella loro purezza primitiva, senza attivare subito un concetto corrispondente nella mente come “macchina”, “voce” eccetera, e quindi come ogni suono inneschi una catena di associazioni: i suoni creano storie, come i pensieri. Vediamo se è possibile etichettare i suoni mano a mano che arrivano e ritornare all’ascolto puro. Notiamo come i suoni più familiari tendono a sovrastare quelli meno noti, notiamo lo spazio che si crea fra l’apparizione sulla scena di un suono e quella di un altro. Se ci accorgiamo che la mente si distrae in pensieri, la riportiamo gentilmente all’ascolto. Sentiamo l’ancora dei nostri passi/respiro, alla quale possiamo sempre tornare.
In autobus o metropolitana (se riusciamo a sederci) possiamo chiudere gli occhi e metterci in un ascolto sinfonico. L’ascolto sinfonico toglie ai singoli suoni il loro significato abituale, separato, e gliene conferisce uno nuovo. Sentiamo come ogni suono è in relazione con ogni altro suono, in una specie di danza.